Performances:160-2002-APRIL-24-ITALY-VICENZA@PALALAGO OF MAROLA

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Setlist

DEATH IN JUNE – VICENZA

Until the Living Flesh is Burned
Death Of A Man
C’est Un Rêve
Ku Ku Ku
She Said Destroy
Smashed To Bits
The Golden Wedding Of Sorrow
All Pigs Must Die
Giddy Giddy Carousel
Tick Tock
Rose Clouds Of Holocaust
We Said Destroy
Little Black Angel
Disappearer In Every Way
Kameradschaft
Fall Apart
Fields Of Rape
But What Ends When The Symbols Shatter?
Death Of The West
Runes And Men
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The Enemy Within
Heaven Street
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??? (con Boyd Rice alla voce)

Death In June in Italia per quattro concerti. Annunciati come headliner in un mini-festival comprendente NON (alias Boyd Rice) e Wolfpact. Per cause a me sconosciute, questi ultimi alla fine non hanno preso parte ai concerti. E per quanto mi riguarda, avrei volentieri fatto a meno anche del sig. Rice. Ma vabbeh, potevo perdermeli? Mai sia! Anche perché se andiamo avanti così, tra denuncie, diffide, ecc… di concerti i Dij ne faranno ancora pochi pochi… Ma andiamo per ordine.

Arrivo fuori al Binario Zero verso le 19.30. Il tempo di scambiare quattro chiacchiere e mangiarmi una pizza al volo nel take-away lì di fronte (ragazzi, divino! Anche se le persone civili mangiano sedute, non in macchina, hehehe), ed ecco il sig. Pierce e compagni che tornano dalla cena. Visibilmente invecchiati i nostri non se la tirano, sorridendo e salutando. Qualche malizioso tra voi potrà chiedersi cosa c’era sotto questo atteggiamento. Personalmente ritengo semplice cortesia.

Entriamo nel binario zero ed è con sorpresa che mi ritrovo di fronte delle mie amiche di Lecce venute apposta per il concerto!!! Grandissime loro e gli altri viaggiatori. Ragazzi che vivete a Milano, non lamentatevi dandyeggianti che “non c’è mai un cazzo da fare in giro”… Prima o poi qualcuno potrebbe spezzarvi le gambe! 🙂

Qualche parola con amici, un occhio al merchandising (su cui spicca il piatto col teschietto Dij, hihihi!!! SOLO 50,00 Euro, hihihi oddio mio, a quando le forchettine?) e senza nemmeno accorgersene, ecco il sig. Boyd Rice che sale sul palco. Attacca con “Total War”, che è poi l’unica che riconosco, e va avanti per circa quaranta minuti.

Che dire, giratemela come vi pare, ma dal mio punto di vista le esibizioni recenti di NON sono pura e semplice propaganda. E a me ha infastidito non poco. Nemmeno la presenza del sig. Pierce in un brano (minato comunque dai problemi audio non indifferenti… mi sa proprio che ai tecnici del suono sta serata non andava giù) ha risollevato un set veramente monotono. Più che altro non era il contesto adatto. NON, come miliardi di altri progetti industrial (vedi Premature Ejaculation, 23 Skidoo o roba simile) li ho sempre ritenuti un gruppo da, passatemi il termine, “performance” intesa come installazione, non come concerto. In quest’ultima veste perde il pathos che sicuramente avrebbe meritato in situazioni più consone. Ma tant’è… Lo show termina senza troppi rimpianti, due minuti ed ecco salire sul palco la Morte in Giugno. Mimetica, maschera, bandiera nera sventolata al pubblico e via. Il trittico “‘Till The Living Flesh Is Burned” (vera chicca che non suonavano da secoli), “Death Of A Man” e “C’est Un Rêve” (“…where is Bin Laden?…” al posto di “Klaus Barbie”…) apre le danze di uno show non particolarmente entusiasmante (la scaletta era perfetta, ma l’uso di qualche strumento in più non avrebbe certo guastato: chitarrina e percussioni alla lunga annoiano, soprattutto se gli effetti usati sono minimi) che alla fine, pur avendomi soddisfatto, non mi ha emozionato granché.

“She Said Destroy” è stata una piacevole sorpresa, anche se vedere certe danze sexy con giochi di mani nell’aria di tizi e tizie nerovestite durante l’esecuzione di uno dei pezzi più famosi di “Nada!” m’ha fatto un po’ sorridere. “Smashed to Bits”, una delle mie preferite del periodo più recente, ha perso molto nel restyling acustico, andando così a confondersi con molti altri brani della produzione del sig. P. Lo stesso Douglas (che dopo il terzo pezzo ha indossato per tutto lo show un elmetto con delle frange che gli coprivano completamente il volto) non m’è sembrato particolarmente in forma e a mio parere l’esecuzione di gemme come “Fall Apart” o “But What Ends When The Symbols Shatter” sono risultate abbastanza fredde. Sarà che la voce si sentiva poco (si si, gli faceva proprio schifo ai mixeristi, ve lo dico io ^_^), sarà che mi guardavo in giro, e invece di trovarmi in qualche luogo intimo e suggestivo ero pur sempre al Binario Zero, locale ottimo per concerti più diretti, meno per quelli d’atmosfera. Sarà tutto quello che volete, ma non mi sono emozionato, ecco. Non un brivido, non un sussulto. Nulla. La data bolognese del 1999 era stata veramente tutta un’altra cosa. Ditemi ciò che vi pare, ma la collaborazione con cicciobello Albin era di gran lunga più interessante delle ultimissime scelte stilistiche prese dai Dij, sia a livello di studio, sia dal vivo. Con “But what…”, appunto, lo show si chiude.

Il pubblico richiama a gran voce i nostri sul palco per due volte (e per due volte i diggei mettono dischi appena Douglas appoggia la chitarra. Stesso teatrino già visto in occasione del “cinema strano”. Calo un “tappeto persiano” pietoso, anche se vedere mr. Morte In Giugno girarsi verso di loro a urlare “Beh allora?! Voglio fare un altro pezzo, non si può?” mi ha divertito non poco). Finale con Rice alla voce, “Mussolini come back”, ecc… (a fine concerto Boyd Rice ha “invocato” un ipotetico ritorno di Mussolini… una bella dimostrazione di stupidità. N.d.Malex) nessun applauso a riguardo, nessuno scioccato, nessun braccio teso. Come da copione, alla fine.

La serata nella sala principale poi è continuata con una festa decisamente fuori luogo, con uno speaker d’eccezione, frequentatore (o ex?) del nostro forum e chat, che annunciava pezzi… rock (?!?!). Ricordo solo Red Hot Chili Peppers ed altre amenità simili: mi sono rifugiato nella sala esterna, quella dell’esilio (for those who fight in isolation… ^_^), ad ascoltarmi un po’ di cose decenti fino alle due e mezza circa. Dopodiché non ne potevo più. Arrivederci e basta. Devo ammetterlo, la prima volta della Morte In Giugno a Milano mi ha lasciato un po’ d’amaro in bocca. [Recensione a cura di Max 13-34 per Erbadellastrega.it – Maggio 2002] Le motivazioni che mi hanno spinto a vedere una seconda data della Morte In Giugno in questa mini tournée italica sono molteplici. In primo luogo ho sempre apprezzato e seguito le opere da lei prodotte, escludendo dal lotto le varie uscite minori (vedi Occidental Martyr e operazioni simili) e il più recente “tutti i porci devono morire”, eccessivamente scopiazzato nel lato A, troppo buttato là nel lato B. Secondariamente, nonostante li segua da più di dieci anni, le occasioni per vederli dal vivo mi erano praticamente sempre sfuggite se escludiamo la data del 1999 a Bologna. Altro buon motivo era che in quei giorni avevo delle ferie forzate. E dulcis in fundo, mi avevano parlato bene del luogo dove si sarebbe svolto il concerto. Inoltre voci insistenti di corridoio parlavano di possibili sorprese (voci incontrollate davano un apparizione di Tibet in braccio a Wakeford mentre Patrick O’Kill distribuiva “Rose” al pubblico… l’avete capita? Non fa niente, era pessima…) che, alla fine, non ci sono state.

La sorpresa vera è stato il luogo, un simil-capannone industriale con un palco molto suggestivo, circondato da tubi d’acciaio ed impalcature imponenti. Non oso immaginare che effetto potrebbero fare qua gruppi tipo Das Ich o simili… unzettoni, preparatevi al festival che si terrà lì a Luglio… L’impianto poi prometteva bene, si parlava di grossa resa in quanto a uscita e le enormi casse ai lati del palco facevano ben sperare. E’ con molto interesse quindi che attendo l’inizio del concerto, mentre la sala comincia a riempirsi poco a poco. Noto che sul palco al posto dei timpani “regolari”, vi sono dei veri e propri bestioni da orchestra. Effettivamente un amica facente parte dell’organizzazione, mi aveva spiegato che i Dij avevano richiesto proprio i timpani orchestrali per tutte le date, ma che per un motivo o per l’altro, solo quelli di Vicenza glieli hanno recuperati. Da quanto mi risulta, questo è vero. Se mi sbaglio, fatemelo sapè… Comunque chiacchiera io che chiacchieri te, mi ritrovo di nuovo il sig. Rice sul palco. Medesimo show di Milano. Medesimo giudizio da parte mia. De gustibus… Fire, Fire, everlasting Fire, qualche minuto di attesa, si spengono le luci ed ecco la Morte in Giugno salire sul palco sbandierando a destra e a destra (eddai, fatemi fare ste battute, no?^_^) la solita bandiera. L’inizio di “Until The Living…” è dei migliori stavolta. Voce caricata di echi (come su “Oh, How We Laughed!”, avete presente?), suoni possenti dei timpani, veramente micidiali, e un Douglas P. veramente in forma che picchia duro a manetta, totalmente preso dalla situazione. “Death Of A Man” fa da preambolo a “C’est Un Rêve”, riproposta qui in maniera splendida. L’impianto audio è veramente molto valido, i giochi di luce interessanti e fin’ora l’esecuzione dei brani è pressoché perfetta. Ma è da qui in poi che, personalmente, ho visto un lento calo della qualità della performance. Escludendo una versione emozionante (nonostante DP abbia sbagliato giro nella parte centrale) di “The Golden Wedding Of Sorrow” e qualche altro momento qua e là, lo show è andato emotivamente in calando, sia sopra che sotto il palco. L’impianto acustico poi, ha avuto molti problemi. Personalmente, visto che ero in prima fila, ho avvertito solamente quelli relativi ai suoni della chitarra, altre persone che hanno seguito lo spettacolo da dietro, mi hanno poi parlato di suono generale impastato, dovuto, probabilmente, ad un errata equalizzazione che andava a distorcere il tutto. Peccato, perché come detto prima l’impianto in se sembrava ottimo. Forse la causa di tutto può ritrovarsi nel fatto che la cosa è abbastanza nuova, quindi i tecnici devono ancora “farci la mano”… boh, non so veramente spiegarmelo. Ma il culmine del fastidio lo si raggiunge quando, a set terminato, un tizio della security sale sul palco. Per qualche minuto parla al microfono in inglese, cercando di riscaldare la gente (per la verità un po’ freddina ed annoiata) ed incitandola a richiamare il gruppo per un bis, poi vedendo le scarse reazioni, svela la propria “italianità” e comincia a pronunciare frasi tipo “facciamo vedere che siamo Vicentini!! W Heider!!! W Hitler!!” e minchiate del genere.

Ora, a prescindere dalle ideologie politiche personali, la cosa m’è sembrata alquanto schifosa, disgustandomi non poco. Motivo per cui ho salutato verbalmente il soggetto di cui sopra accompagnandomi con gesti espliciti riguardo alla mia idea del suo teatrino personale. Dopodiché mi sono allontanato dal sottopalco, abbastanza amareggiato dalla cosa (che paradossalmente ha infastidito anche molti skin presenti, che hanno reagito nel mio medesimo modo: evidentemente il discorso del “fuori luogo” non valeva solo per il sottoscritto). Ho appena fatto in tempo a vedere oggetti vari che arrivavano sul palco, dopodiché dalle retrovie mi son sentito il solito bis con Rice alla voce, con un sottofondo di fischi non indifferente.

Evito di parlare della superflua discoteca che ha seguito il concerto perché a quel punto non me ne poteva fregare di meno. Mi sono trattenuto un po’ con degli amici, e poi me ne sono scappato. Altra mezza delusione, lo devo ammettere. A posteriori mi sento di fare qualche considerazione. Ci tengo a precisare che sono pensieri personali, in modo da evitare polemiche generalizzate.

1) Questi concerti dei Death in June mi hanno parzialmente deluso per i motivi descritti nelle recensioni. Inoltre la presenza agli spettacoli di gente che per tutto il concerto parla dei cavoli suoi ad un metro dai miei padiglioni auricolari continua ad infastidirmi: se non volete seguire, spostatevi dietro! (o restate a casa direttamente! N.d.Malex).

2) Questione Nazi Fasci ecc… Per tutti quelli che si sono stupiti nel vedere simpatizzanti della destra agli spettacoli, ricordo e sottolineo che questo “fenomeno” non è recente come qualcuno vorrebbe far credere, ma è vecchio tanto quanto i Death In June stessi. Quindi non mi sembra il caso di scandalizzarsi o di gridare all’oltraggio. Rimango dell’idea che finché non mi si da fastidio direttamente, la gente può pensare e credere in quello che gli pare.

3) Questione prettamente artistica. Sarà stata un’impressione, sicuramente discutibile. Ma non mi sembra che la Morte in Giugno abbia ancora molto da dire. Ripeto, sarò nostalgico, ma i bei tempi mi sa che sono ormai passati…

[Recensione a cura di Max 13-34 per Erbadellastrega.it – Maggio 2002]

Il Palladium è una di quelle discoteche dove ci van gli Americani. Si, quelli della “Ederle”, la base Nato di Vicenza.

La dirimpettaia stradina sterrata che porta nello sterrato parcheggio è l’ingresso al Palalago di Marola. Mica il lago di Garda, sia chiaro. Un laghetto di pesca sportiva, con annessi, connessi e perfino il palazzetto dello sport. E’ qui, nel prefestivo 24 aprile (il giorno prima della festa nazionale della Liberazione… un caso?), che si è celebrato uno degli eventi italiani più attesi degli ultimi anni, almeno qui nel Nord-Est. E’ qui che, dopo alcune altre date lungo la penisola, è arrivata la Morte in Giugno. E’ arrivata preceduta da un tappeto rosso di polemiche (e non starò qui a dilungarmi su temi triti, ritriti e omogeneizzati che già son stati blaterati fino alla nausea). E con lei, e per lei, son giunti da tutto il Nord e non solo, in questo retrobottega del mondo sperso nelle campagne vicentine.

All’interno il posto è come tanti altri suoi simili adattati per l’occasione: con quel catalizzatore cosmico che è il bar, l’affollato spazio di Ende, Devis col suo “Sottomondo”, e l’angolo del merchandising, pieno di gadget inutili quando costosi… E poi, all’opposta fazione, l’enorme palco. Forse appare ancora più grande perché estremamente spoglio e vuoto. Sulla parete campeggia uno stendardo. E’ quello storico, quello dell’83. Quello con l’enorme “Totenkopf”, simbolo da sempre di questa strana Morte. E già qui potrebbero aprirsi le cataratte di quella diga di polemiche che da giorni ci assillano a destra e a manca…Ma andiamo con ordine.

I gruppi annunciati a fare da spalla a mister Pierce sono due: NON e Wolfpact. Del secondo già si sa che molto probabilmente non si esibirà: le date precedenti fan storia. Ed infatti, ad aprire questa macabra estate di Morte ci pensa lui, il signor NON, mister Boyd Rice in persona, uno dei personaggi più ostici di questa scena musicale, un “menefreghista” che da sempre, in barba ad ogni controversia e polemica, porta avanti ad oltranza la sua scelta sonora. Ci aspetta almeno mezz’ora di rumore allo stato puro, una schizofrenica frenesia di note assordanti senza interruzioni, senza respiro, senza requie. Per i più, che mai hanno assistito ad una sua performance, è una mezz’ora allibita, mani alle orecchie e un enorme punto interrogativo negli occhi: chi è? Che fa? Che vuole? Che c’entra? C’entra eccome, nella sua pluridecennale amicizia con Douglas, anni di collaborazioni, complicità e note prestate, uno dei pochi sempre fedele al suo connubio con la Morte. Coloro per i quali invece il signor Rice non è affatto sconosciuto, si stupiscono che in questa occasione la sua apertura sia così… soft! Sì, così soft se memori del concerto in quel di Torino anni addietro, quando ci propinò quella bomba sonora proveniente da una sirena ululante! Tant’è che l’esibizione (chiamiamola così, dire “concerto” sa troppo di melodico, di piacevole, di ascoltabile…) ha termine e il pubblico si assiepa attorno al palco, in un’aria di attesa che ha quasi del misticismo.

Ed eccolo, arriva, tuta mimetica e l’immancabile maschera, chitarra e percussioni. Death in June. Nello spazio di un concerto, Pierce ripercorre un’intera carriera: dagli esordi di “Until The Living Flesh…”, a “Death Of A Man”, “C’est Un Reve”, “She Said Destroy”, “Fall Apart”, “Fields Of Rape”, “All Pigs Must Die”, “Tick Tock” , “But What End When…”, “Kameradschaft”, “Heaven Street”…

Sarebbe tutto bellissimo se non fosse per una resa acustica pessima. Forse chi ha preso stazione al mixer non sa (e allora mi chiedo che cosa diavolo ci sta a fare là) che i cursori su quella strana tavolozza non sono dei giochini per passare il tempo, ma, mossi su e giù con sapienza, servono a rendere acusticamente ad hoc la musica equalizzandola in maniera ottimale. Il concerto è quasi inascoltabile. Appena più lontano dal palco la musica è assordante, perde ogni malia e ogni fascino, tutto è rumorosamente fuori luogo. Il mastodontico impianto del Palalago mal si coniuga con le dolcezze dell’acustico, rimpiango che Douglas, con la sua chitarra e la sua voce suadente non sia in un luogo più intimo e raccolto. Del resto, la funzione di un palazzetto non è esattamente quella di ospitare eventi musicali, e la sua struttura acustica, ben che vada, è concepita per amplificare al meglio i rimbalzi di un pallone, non per dare atmosfera a “Rose Clouds Of Holocaust”… Sono tristemente arrabbiata. Di6 fa parte della mia storia musicale. Attendevo da tanto questo concerto, non passa settimana che un suo disco non prenda il posto d’onore sul mio instancabile piatto; accantonare per qualche ora il nero vinile e assaporare il gusto delle note, finalmente e nuovamente, “vive”… Attorno il pubblico è diviso, una parte di esso segue con attenzione e coinvolgimento, mentre da altre parti si sentono voci che sommessamente criticano o protestano, rafforzando in me la convinzione che qualcosa non vada come dovrebbe andare.

Stranamente, verso la metà dell’esibizione, la musica assume un tono più conciliante, come se avesse fatto pace con quell’impianto che la propaga nell’etere. Qualcosa è cambiato, tutto è più umano e meno fracassone, finalmente si “sente” questo concerto in maniera più dignitosa! Ma io, per quel che mi riguarda ne provo rammarico, sono stanca. Stanca e amareggiata, e delusa. Troppe aspettative? Forse sì, ma solo perché so quanto e cosa, in termini emozionali, può dare la Morte. E qui ritrovo ben poco di queste emozioni. Emozioni che si trasformano in rabbia quando, dopo che siamo stati salutati come da rito prima di una nuova sortita, se ne esce il benemerito imbecille N.2, che invita la platea a richiamare Douglas sul palco al grido di “Heil Hitler” e blaterando di un non meglio identificato “orgoglio vicentino”! Io sono vicentina. E ho provato vergogna.

Mi son vergognata di poter esser associata ad un individuo che parlava unicamente per sé coinvolgendo me e chissà quante altre persone presenti nel suo inutile gioco meschino. E non intendo aggiungere altro. Perché non saprei trovare le parole adatte per descrivere questa inutile provocazione gratuita, per descrivere la mortificazione e il disprezzo, che in una sequenza di infiniti pensieri mi hanno attraversato da capo a piedi passando per l’anima. Inutile sottolineare la reazione disgustata del pubblico. Io ero senza parole. Non credo che Pierce sia uscito grazie a questo inutile appello. Spero e desidero credere che Douglas fosse all’oscuro di questa inutile farsa (personalmente credo che Douglas l’abbia sentita e, quindi, poteva dire due parole poteva dire due parole per stigmatizzare quell’atteggiamento… Era o non era il “suo palco” quella sera? invece niente. Chi tace acconsente, si dice dalle mie parti. N.d.Malex).

Altri due pezzi, “The Enemy Within” e “Heaven Street”. Poi tutto sembra finito. Invece manca lo schiaffo finale. Un ultimo brano assieme a Boyd Rice. E la conclusione che stavamo aspettando, memori delle voci che erano circolate dopo gli altri concerti.

Speravamo che qui non accadesse, ma mancavano le premesse per un finale diverso dagli altri. Ed infatti Rice ci saluta, con il suo “Mussolini come back”. Un ulteriore, perdibile epilogo. Non è propaganda. Non è istigazione. Non è apologia. E’ semplicemente ridicolo nella sua gratuità. Perché inutile. Perché poteva esser un bel concerto, perché la scaletta era stupenda, perché lo si aspettava da tempo, perché sul palco c’era Death in June. Invece è stato un concerto iniziato male (ma non per colpa di Pierce) e finito peggio. Un evento rovinato dall’imbecillità, un’altra occasione sprecata. Mi piacerebbe sapere da tutti cosa hanno provato. Ma è solo curiosità. I concerti li vivo con me e per me. Sento commenti diversi e antitetici, mezze frasi carpite, alcune osannanti, altre perplesse. La mia rabbia si è decantata in tristezza. Su quel palco ho visto un uomo stanco, nella sua voce l’amarezza di chi ha perso tutte le illusioni. Mi chiedo che cosa pensi Douglas di tutto questo. Ma anche questa rimarrà una curiosità.

La serata prosegue, in consolle c’è un Dj, parte la solita carrellata di banalità. Molti se ne vanno. Alcuni hanno voglia di ballare. A me questo non interessa… Rimango a parlare con gli amici, quelli che di strada ne han fatta per essere qui, nel retrobottega del mondo in una serata dove la Morte di Giugno era carica di promesse. Mi sento quasi in dovere di scusarmi per quanto è accaduto oggi… So che è ridicolo, ma son dispiaciuta. Ci salutiamo, questa volta son io che gioco in casa, mezz’oretta e sarà davvero tutto finito. Ciao ragazzi e buon viaggio. Buon viaggio e buona fortuna anche a te, stanco signor Pierce. Ancora un’ultima domanda: è questo quel che succede quando i simboli si frantumano?

E allora?: Appunto, dopo il concerto di Der Blutharsch che ha preso vita l’anno scorso nei pressi di Vicenza le voci di corridoio che davano per certo un mini-festival che avrebbe nuovamente toccato le terre del Nord-Est si erano fatte sempre più vive e pressanti, settimana dopo settimana. Se è vero poi che l’annuncio di un tour italiano della NER brigade non ha avuto chissà quale effetto sorpresa, è anche vero che c’è stata una certa perplessità in più di una persona nello scoprire l’esistenza di ben quattro date (di cui tre concentrate nel centro/nord). Erano un sacco di anni che non accadeva nulla simile: Milano, Prato, Roma e Vicenza, facile quindi ipotizzare un’affluenza di pubblico piuttosto diluita vista l’ampia scelta di date verso cui orientarsi. Pessimismo, lucido scetticismo oppure semplice malafede verso le reali potenzialità in grado di manifestarsi in occasione di simili eventi da parte di Douglas P. & soci? Prenotazione alla mano prepariamo i bagagli per raggiungere l’ultima tappa del tour italiano dei Death in June & Non (con annessi frammenti di Wolf Pact).

Wolf Pact, questo sconosciuto: Negli ultimi mesi non ho avuto modo/tempo di dedicare una recensione al lavoro di collaborazione tra Douglas P., Boyd Rice e Albin Julius, alla stessa maniera non ho idea del grado di successo e notorietà raggiunto dal disco in questo suo primo periodo di rodaggio, certo però mi ha sorpreso non poco sentirmi dire da un sacco di gente frasi del tipo: “Ma chi sono ‘sti Wolf Pact? Ho sentito che suoneranno con i Death in June, no?”, “C’è un gruppo… Wolf… qualcosa… che farà da spalla a Douglas, vero?!” e così via. In realtà è anche vero che (almeno per la data vicentina) il repertorio legato a questo progetto a sei mani risulterà piuttosto marginale e non mi meraviglia certo l’idea di sentire, tra un po’ di tempo, la voce di qualche personaggio del pubblico che commenta la serata dicendo: “Wolf Pact? Si vede che hanno avuto dei problemi visto che sul palco non si sono fatti vedere. Magari hanno litigato con Douglas…”. Esagerazione? Mica tanto.

Tre ore di macchina ed eccoci qua: Tanto è sempre Vicenza, ci siamo già stati pochi mesi prima per Der Blutharsch, cambierà pure il locale, ma i chilometri sono più o meno gli stessi. Partiamo con due macchine ben convinti di arrivare a destinazione entro i tempi stabiliti, e invece no. Un po’ di code, un po’ di deviazioni, un po’ di fraintendimenti vari con la piantina ed ecco come, a notte inoltrata, parcheggiamo all’interno di uno spiazzo in aperta campagna a circa trecento metri dalla nostra meta. E’ tardi, mostruosamente tardi, appena metto piede sull’erba mi rendo conto di come il concerto sia già cominciato, eccome! La terra trema, si percepisce distintamente l’onda anomala scatenata da “Total war”, brano che di norma va a chiudere lo show di Boyd Rice. Mentre mi maledico per tutta una buona serie di motivi inizio a correre verso il capannone industriale che ospita la serata. Qualche istante ed ecco stagliarsi la sagoma dell’enorme prefabbricato i cui vetri stanno pulsando come arterie in crisi cardiaca. C’è gente che è ancora fuori in fila per il biglietto e noi, velocemente, ci accodiamo. Il volume e potente come in poche altre occasioni, la sala è enorme e ben attrezzata: chiacchierando con Aldo (che sorpresa!) mentre attendo il mio turno alla cassa scopro con mio sommo sollievo come in realtà Boyd Rice sia appena salito sul palco. Serata salvata in corner. Vediamo di godere di tutto quello che ha da offrirci.

Molti nemici…: Ormai è diventato il tormentone per tutte le stagioni: lo sfoggia Albin Julius sulla t-shirt per le vacanze (senza contare l’ingresso del suo sito ed il ritornello del suo ultimo disco), lo utilizza anche Douglas P. come se ci fosse ancora bisogno di ribadire quanto sono bastardi quelli della World Serpent ed ora, magicamente, lo troviamo anche sulla bocca di Boyd Rice mentre lo declama su basi di industrial bombastico per la gioia di ogni fan integralista della scena. L’assalto sonoro non risparmia nessuno, e mentre qualcuno cerca conforto per mano di un paio di tappi per le orecchie mi ritrovo ad assistere alle solite scenette ritraenti fragili ragazzine che si mettono le mani sulla testa nell’attesa che i Death in June salgano sul palco. Per quanto riguarda Herr Rice non c’è molto da aggiungere: spettacolo a cinque stelle con presenza sul palco da 10 e lode, misceliamo il tutto con un livello di simpatia che, a mio giudizio, ben pochi altri riescono a permettersi ed ecco il quadro fedele della sua performance vicentina.

Un gentile e sentito inchino a questa icona vivente del terrorismo industriale, in fondo Boyd Rice è come un papà per tutti gli intenditori del rumore fatto vinile; ha iniziato quando non c’era praticamente nessuno e adesso, con centinaia di emuli in circolazione, continua a portare avanti quel suo inconfondibile industrial da bombardamento a tappeto mantenendosi a dovuta distanza e distacco da tutti quei figliastri e nipotini più o meno validi e più o meno valenti che affollano i mail-order e gli scaffali dei nostri negozi di fiducia.

In attesa di “Children of the black sun” non ci resta altro se non augurare a mr. Intolerance cento di questi giorni (…e nemici?). Gli spezzoni di Wolf Pact che si susseguono durante la serata non avranno altrettanta fortuna: troppi problemi tecnici e noie collaterali. Manca pure la mano di Albin, insomma come ho già scritto, molti saranno tornati a casa con un’idea piuttosto confusa al riguardo. Peccato.

Where is Bin Laden?: Passeranno una ventina di minuti prima di vedere Douglas salire sul palco, nel frattempo ho la possibilità di intrattenermi con un po’ di amici giunti da tutto il nord Italia per assistere alla serata. Con mia sorpresa scopro come in realtà, nonostante una precedente data milanese (risalente a solo un paio di giorni prima) molti abbiano scelto volontariamente di vedere entrambi i concerti che hanno interessato la nostra zona. A Milano la serata è cominciata molto prima e sostanzialmente qualche variazione sul tema c’è stata, comunque sia, almeno qui a Vicenza non sembrano esserci gli sciroccati che ballano sulle note di “Rose clouds of holocaust” (…). Dopo un lungo loop di “Heilige tod” ecco l’arrivo on stage della Morte in Giugno: sventola la bandiera con il totenkopf e le rune si incarnano nella figura mimetica di un Douglas P. che accoglie i presenti con la devastante processione di “Till the living flesh is burned”. Repertorio un po’ atipico per la verità, dove accanto agli immancabili cavalli di battaglia (“Heaven street”, “Falla apart”, “Death of the west”…) trovano spazio diverse sorprese assieme a qualche rimaneggiamento davvero inaspettato. Un concerto che sembra aver risentito dell’11 settembre in maniera piuttosto evidente: ascoltiamo una “C’est un rêve” dove Klaus Barbie finisce per lasciare il posto a Bin Laden, sorprende non di meno una “(S)he said destroy” (“in a black New York…” ve la ricordate?) che personalmente non ricordavo in un live dai tempi del primo tour italiano del lontano aprile targato 1985. Con “Death of the west” non mancano i riferimenti in tema ed ecco che, accanto alle solite scimmie da zoo, adesso “…abbiamo pure i talebani”. Qualche piccola dedica all’Italia (il vino cambia marca in “Runes and men”, lo stesso dicasi per le strane giornate di “The enemy within”), e poi, tanta buona musica. Ciò che mi dispiace invece è la scarsa line-up messa in piedi per il tour: John Murphy alle percussioni e Douglas P. alla voce/chitarra più qualche supporto di campioni il più delle volte a base di loop e pre-registrazioni che in diversi casi non riescono a dare quella marcia in più in sede live. Brani sullo stile di “Smashed to bits – in the peace of the night” perdono tutto il loro mordente orchestrale, mentre diverse altre canzoni si ritrovano un po’ ingabbiate in una sorta di scatola acustico/marziale priva di un qualsiasi sfogo tipico di quei concerti dove abbiamo visto i Death in June portati in trionfo dalla presenza di tre, quattro, se non addirittura cinque elementi. Qualche problema (fortunatamente superato) con l’addetto del suono, un brano in più rispetto alla data milanese (“Giddy giddy carousel”, se non sbaglio) e la saltuaria apparizione on stage di Boyd Rice come “addetto agli intro” per i brani acustici dell’ultimo “All pigs must die”. In attesa dell’ennesimo bis ecco però che lo spettacolo si movimenta (nel modo peggiore) con l’entrata in scena di un personaggio/mina vagante che va a surriscaldare la serata.

“Facciamo sentire che siamo a Vicenza!”: L’omino buffo che prende posizione sul palco ci regala una manciata di minuti da delirio stile ultras di serie C2 con incitamenti da stadio che però ben poco sortiscono davanti un pubblico che resta attonito e sostanzialmente distaccato (e ti credo). Scenetta triste ed oltremodo fuori luogo (i “comizi” si fanno alle sagre di partito quindi, pedalare!) che un po’ avvelena il clima già reso fastidioso da un gruppetto di pirla che, a quanto pare, ha pagato il biglietto solamente per il gusto di insultare Boyd Rice ad ogni suo intervento sul palco (ma tanto il volume e così alto da sommergerli come l’alta marea). L’ultimo brano ci regala una portentosa “People” con annesso finale da brivido. Il lancio di un bicchiere di plastica (mi dicono da parte di una ragazzina indignata…) verso il piccolo Boyd sortisce un effetto pari a zero mentre le ultime parole pronunciate sul palco da Herr Rice esplodono dal microfono scuotendo il capannone al pari di una cannonata. Amen.

“Merchandising” & C.: Il calendario messo alle stampe per l’occasione (13 mesi, da giugno 2002 a giungo 2003) è, a mio parere, molto sciccoso. Le foto sono di ottima qualità ed alcuni scatti sono davvero impedibili, mentre non posso certo dire lo stesso per il piatto in ceramica bianca che fa “bella” mostra di sé sul banchetto ufficiale del gruppo: piuttosto bruttino, un coccio che ha ben poco da offrire a livello di estetica, tanto meno in fatto di utilità (con quello che costa poi…). Il calice in cristallo prodotto nel ’99 era tutt’altra cosa, qua invece, a guardare il piatto mi vengono i brividi al solo flebile pensiero di qualche altro gadget di prossima realizzazione (set di tovaglie? posate runiche? merendina con trischele?!).

Consumiamo l’ultima mezz’ora che ci resta a zonzo nel back-stage: tante parole, una bicchierata e la delirante performance di un nostro amico che tenta di convincere Boyd Rice di essere un famoso attore porno della scena locale (ehm…). Adunata davanti all’ingresso del locale e poi, dopo gli ultimi saluti, tutti a casa. L’alba che si riflette sull’autostrada accompagna con discrezione il monotono brusio dei nostri veicoli. Anche questa volta è proprio finita. Sogni d’oro, Vicenza.